Università Cattolica del Sacro Cuore

Lo sviluppo di giovani talenti e l’avvio alla vita da atleta professionista. È questo il cuore pulsante della collaborazione tra la Federazione Italiana Rugby e l’Università Cattolica, sviluppata attraverso un percorso di action research volto all’analisi del processo di crescita psicosociale dei giovani atleti. «È un progetto molto particolare dal punto di vista psicosociale, svolto durante tutta la stagione 2014/2015 – spiega Chiara D’Angelo, coordinatrice didattica del Master in Sport e intervento psicosociale e ricercatrice presso la Facoltà di Psicologia –. I ragazzi, tra i 15 e i 16 anni, vivono tutta la settimana lontani dal contesto familiare e dai loro punti di riferimento, cambiano scuola, vivono e si allenano a Remedello (l’Accademia zonale under 18, in provincia di Brescia, dove è stato sviluppato il progetto, ndr)».

La dual career

La Federazione facilita così la dual career: tutela il diritto allo studio dei ragazzi, garantendo loro di frequentare la scuola, e dà allo stesso tempo una forte accelerata alla loro carriera sportiva. «Cercare e coltivare nuovi talenti è fondamentale  – dice Massimo Borra, responsabile del Progetto Università della Federazione Italiana Rugby –. Per questo motivo, puntiamo davvero sui nostri ragazzi e vogliamo investire su di loro. Dal 2013 abbiamo dislocato su tutto il territorio italiano nove Accademie zonali under 18 (Milano, Torino, Remedello, Rovigo, Mogliano, Roma, Prato, Catania e Benevento, ndr) e una Accademia nazionale under 20, a Parma».

Le strutture sono composte da 30 ragazzi e da manager, responsabili tecnici, preparatori fisici, video analyst, medici e massaggiatori. L’obiettivo della Federazione è pescare i migliori ragazzi tra i 16 e i 17 anni fra tutti i club d’Italia, in modo da consentire loro di poter fare quel salto di qualità che li potrebbe portare ad ambire alla Nazionale nel giro di un paio d’anni; se però i giovani fossero tolti del tutto dai club di provenienza, verrebbe impoverito il movimento rugbistico italiano. E così vivono in Accademia dal lunedì al venerdì; il venerdì sera tornano nei club, si allenano e giocano la partita nel weekend.

Per i ragazzi tutto ciò si traduce in un incrocio di pressioni costanti: da parte degli allenatori, dei club, dei docenti e dei genitori. «Sarebbe necessario avere anche uno psicologo in ogni Accademia – aggiunge Borra –, perché con 30 adolescenti sempre a stretto contatto fra loro e con lo staff tecnico, le problematiche che possono nascere sono tante. Basti pensare alla gestione dell’infortunio, alla lontananza da casa, all’essere accettato da gruppo». Da questa esigenza nasce la partnership tra la Federazione Italiana Rugby e l’Università Cattolica che, con il coordinamento di Chiara D’Angelo, ha potuto contare sul lavoro di Francesca Fabbri, psicologa e alumna del Master in Sport e intervento psicosociale diretto da Caterina Gozzoli, e di Elisa Chiappani, laureata in Psicologia degli interventi clinici nei contesti sociali presso la sede di Brescia dell’Università Cattolica.

Action research

Il lavoro dello staff dell’Università Cattolica non si è limitato alla raccolta dei dati di ricerca attraverso focus group con ragazzi, interviste allo staff tecnico e alle famiglie, ma ha sviluppato un percorso di action research, grazie a una fiducia reciproca sempre crescente con lo staff tecnico. È stato attivato un progetto di intervento con l’ausilio dei tecnici, sono state ipotizzate le attività di campo da fare con i ragazzi sulla base delle abilità mentali legate alla prestazione ed è stato organizzato uno spazio di counseling rivolto ai ragazzi.

«Abbiamo dato ai ragazzi dell’Accademia uno spazio di pensiero, di parola e di confronto con una guida qualificata – chiosa la professoressa D’Angelo –. E loro, dopo il primo ciclo di incontri, hanno chiesto di farne altri, tra lo stupore degli allenatori e del manager Federico Angeloni». Dare voce ai diversi attori dell’Accademia è stata l’occasione per attivare consapevolezza sulla complessità di questa transizione nella vita dei giovani atleti. «Hanno avuto finalmente la possibilità di parlare di sé, in un contesto tranquillo, tra loro, con una persona che sapeva dare loro dei feedback – commenta la dottoressa Fabbri ­–. Abbiamo raccolto dati di ricerca qualitativa, ma soprattutto abbiamo fatto intervento, dando spazio alle loro emozioni e paure, e raccogliendo elementi da restituire ai coach e ai responsabili federali».

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